Dialoghisti Freelance - L'arte di tradurre in pigiama

Oggi vi propongo un post chiacchiericcio, di quelli ad alto contenuto personale e che sviano in maniera sostanziale dal tema portante di questo blog. Per chi fosse interessato unicamente alla mia parte makeup... Beh, non leggete oltre. Al contrario, se volete saperne un po' di più sul mio percorso di studi e lavorativo allora questo è il posto giusto!

foto presa dal web

Premetto che, allo stato delle cose, ho continuato a posticipare all'infinito la scrittura di questo post, un po' per mancanza di tempo a inizio 2015, ma devo ammettere che una grande fetta di colpa ce l'ha avuta il non avere un lavoro per molti mesi o, alla meglio, qualche lavoretto saltuario in estate e verso fine anno. In sostanza continuavo a ripetermi: "Che senso ha scrivere di una professione così particolare, se poi non ho neanche un lavoro al momento? Se non sono neanche sicura che lo avrò ancora?" Brutti pensieri, lo so, ma questa è la professione che mi sono scelta e le crisi da mancanza di lavoro ci saranno sempre, perciò keep calm & move on come si suol dire. Ora però che mi sento abbastanza fiduciosa e visto che il lavoro per fortuna c'è, mi sento di riprendere in mano questo discorso e accompagnarvi nel mondo dell'adattamento per il doppiaggio.

Scrivervi la storia della mia vita sarebbe alquanto noioso, quindi partiamo dal presupposto che ho studiato lingue straniere per tutta la vita e ci togliamo l'impiccio: liceo linguistico e Mediazione all'università. Finita questa, ho attraversato un anno di transizione; il classico anno sabbatico che non porta quasi mai a niente. Ero decisa a trovare un lavoro, uno qualsiasi in realtà, perché "tanto con le lingue ci fai di tutto", ma nessuno cerca mai te per i lavori seri, aggiungo io. Insomma, ero un po' demoralizzata dal fatto che la laurea fosse semplicemente un mio upgrade personale, senza sbocchi veri e propri. Nel corso di quell'anno, però, mi hanno parlato di un master di I livello (TuttoEUROPA) dedicato alle varie specializzazioni nella traduzione. Avevo un po' di timore nel provare il test, ma appena ho visto che tra le opzioni dei corsi c'era "Traduzione specializzata per l'adattamento e il sottotitolaggio di prodotti audiovisivi" lì è scattata la scintilla, dato il mio amore sconfinato per le serie TV e il cinema. Ho quindi passato il test nelle due lingue a me più affini (inglese e tedesco) e sono stata presa insieme ad altri 15 ragazzi.

TRANSLATORS ARE WARRIORS IN PAJAMAS

Estratto di traduzione e adattamento originale di Vikings per la tesi di master.

Un anno intenso che, a tutti gli effetti, mi ha dato una nuova prospettiva. La disillusione verso le frasi standard dei più - e a volte assolutamente false - "Con le lingue fai tutto!", "Cercano un sacco di gente che sappia l'inglese!" è un po' svanita durante l'anno, soprattutto perché la traduzione specializzata per l'audiovisivo è un campo ai più sconosciuto. Si parla spesso di doppiaggio, ma pochi parlano degli adattatori: di quei traduttori che le battute le costruiscono prima di finire sul leggìo del doppiatore. Un lavoro tanto sconosciuto (e bistrattato) quanto affascinante. E così, con mia assoluta sorpresa ed entusiasmo, ho terminato il mio anno di Master nel 2014 e dopo pochi mesi sono stata contattata per tradurre e adattare il mio primo progetto per la TV: una telenovela in spagnolo messicano. "Ma non avevi studiato solo inglese e tedesco??" qualcuno dirà. Eh sì, proprio così. Mi sono ritrovata a imparare lo spagnolo durante il lavoro e posso dirvi che è stata una delle esperienze più importanti, divertenti, sofferte e formanti di tutta la mia vita. Dieci mesi di pianti, di lavoro instancabile, di gioie e dolori, ma bellissimi. Perché in fondo questa professione è un po' così, soprattutto per i pivelli come me che si approcciano nell'ambiente: ti butti nelle novità senza corda di sicurezza e speri con tutte le forze di non farti troppo male.

Come dicevo, non è un ambiente molto conosciuto e anche un po' di nicchia, nel senso che è difficile entrare a farne parte in pianta stabile. Il traduttore freelance, nello specifico, lavora a casa e non ha nessun tipo di contratto che lo vincoli a un datore di lavoro. Si lavora per svariati clienti ma si rende conto, sostanzialmente, solo a se stessi. Il migliore amico del traduttore freelance? Il computer. Con cui mettersi in contatto con clienti e colleghi, ricevere i lavori ma soprattutto con cui condividere pareri e idee con altri traduttori e dialoghisti che vivono più o meno la tua stessa situazione. Rigorosamente in pigiama, calzettoni e pantofole.

Come ho accennato, non è per niente facile entrare nel giro dei dialoghisti, ci vuole una buona dose di sicurezza in se stessi, di preparazione linguistica (sia di partenza che di arrivo) e un'altrettanta buona dose di... culo. Trovare clienti con cui è piacevole lavorare, che paghino in maniera costante e corretta non è sempre facile, anzi è più facile trovare chi vorrebbe sfruttare le tue conoscenze per due soldi, facendoti lavorare allo stremo per poi non farsi sentire mai più. Per non parlare delle giornate infinite passate davanti allo schermo di un computer, con gli occhi piccoli e un mal di testa cronico; ma anche questo fa parte del gioco e visto che siamo in ballo, non ci resta che ballare. Ci sono sicuramente i lati negativi: amministrare i propri introiti, fatture, compensi, partita IVA sì o no, le tasse, lavorare nei weekend, a ogni ora del giorno e della notte, le festività mancate e così via... Ma se è vero che molti di questi argomenti portino un traduttore/adattatore in erba alla follia e anche allo scoraggiamento a volte, la soddisfazione del lavoro riesce sempre a prevalere su tutto. Creare da zero un copione, con le tue parole, è una cosa che ancora mi emoziona e mi entusiasma, anche a distanza di più di due anni dal mio debutto lavorativo. Adoro vedere il copione prendere forma e modellarsi fino a diventare un prodotto finito, che arriverà in studio di doppiaggio e, successivamente, in TV o in piattaforme come Netflix.

MA QUINDI... CHE LAVORO FAI?

Estratto di traduzione e adattamento originale di Vikings per la tesi di master.

Oggi, a quasi 3 anni dal master, traduco e adatto prodotti televisivi principalmente per Sky, nello specifico prodotti in simil sync. "Cos'è, si mangia?" Il simil sync è una prerogativa di quei programmi televisivi che non necessitano di sincronizzazione in labiale (che invece c'è nelle serie TV o nei film, per chiarirci, in cui ogni parola deve andare di pari passo con il labiale originale) e in cui si predilige una buona traduzione, il mantenimento delle pause e che le battute rispettino l'inizio e la fine del parlato originale. Lavoro sui programmi che spesso vedete sui canali come DMAX o Real Time, le cui tematiche spaziano da motori, dogane internazionali, amori perduti, cuccioli negli zoo, cucina, programmi musicali (American Idol, ring a bell?!), competizioni di moda, omicidi efferati, sport, documentari di varia natura, aste e svendite e, perché no, anche prodotti softcore, in onda in terza/quarta serata. Mi considero un po' tuttologa, da questo punto di vista, un mese lo passi a farti una cultura su tutte le tipologie di automobili e i loro motori, quello dopo piangi davanti a storie strappalacrime o ti emozioni davanti a cuccioli adorabili e quello dopo ancora ti ritrovi a cercare i termini più usati nel mondo della pornografia. Tutto regolare.

Non è possibile quindi categorizzarlo come un lavoro noioso o ripetitivo, anzi mi permette di immagazzinare nuove informazioni, di imparare sempre di più a livello linguistico e di scoprire ogni giorno qualcosa sul mondo che mi circonda. Per questo, e per tutti i motivi sopra elencati, sono fiera e orgogliosa del mio percorso e del mio lavoro. Non lo cambierei per nulla al mondo, dovessi anche faticare ad arrivare a fine mese (e infatti succede!), perché in questi anni vorrei godermi, e lo sto facendo, i frutti del mio lavoro e dei miei studi, dopo aver sentito per anni le parole di persone disilluse dalla vita, per cui per fare un lavoro "normale" non serve per forza che ci appassioni, basta portare la pagnotta a casa. A 27 anni lo capisco benissimo, credetemi, ma voglio sperare che non si debba per forza avere un lavoro che non ci soddisfa, ma crearne uno che amiamo e costruire qualcosa di buono con esso, che ci permetta di portare a casa la famosa pagnotta e che ci renda orgogliosi del percorso di vita intrapreso. Non è facile, non lo è mai stato e non lo sarà mai, ma qui la Speranza è di casa. Letteralmente!

UN CONSIGLIO?


Vorrei terminare questo mio lungo sproloquio lavorativo con una rassicurazione per tutti quelli che vorrebbero intraprendere questa carriera (o una simile): non arrendetevi mai. Le difficoltà esistono in tutti i campi e sarebbe folle pensare che gli unici "messi male" siano i lavoratori in proprio, perché tutti i lavori hanno palizzate altissime da superare, ma non lasciatevi intimidire da chi pensa che non ne valga la pena, perché non è così. Ne vale la pena, sempre. Io sono cresciuta con professori che mi consigliavano di non studiare lingue perché non ne sarei stata in grado nel lungo termine, e ho proseguito con altre persone che mi consigliavano, e lo fanno ancora, un lavoro "vero", perché è meglio un lavoro sicuro ma bruttino che porti uno stipendio mensile, che uno meraviglioso ma incerto. Seguite il vostro istinto, le vostre passioni e, con la buona volontà e tanto impegno andrete avanti. Non si tratta di destino, di fato, di magie che vi faranno diventare professionisti tutto d'un tratto, si tratta di lavorare sodo, nella professione e in voi stessi. Solo così potrete essere fieri di avere "il lavoro dei vostri sogni".

Silvia Speranza

Commenti

Post più popolari